L’essere donna ha da sempre significato il dover combattere contro falsi pregiudizi in un mondo e in una società prettamente maschile dove, soprattutto nell’arte e nella letteratura, poche erano le figure femminili che riuscivano ad emergere. Ed è tra queste poche che Grazia Lavia incentra tutto il suo studio artistico. “Abito bianco per andare a nozze con la tua morte”. Parte da qui, da questa poesia di Alda Merini, il suo percorso formale che si esprime attraverso la ricerca di una materialità velata, non espressa, quasi negata nel candore abbagliante della sua opera. E infatti i suoi vestiti sembrano “non essere” tanto sono eterei ma capaci, peraltro, di racchiudere in sé l’anima forte e fragile delle poetesse da lei tanto amate: Emily Dickinson che, vestendosi solo di bianco, per prima l’ha ispirata; Sylvia Plath, Virginia Woolf con la sua essenza profondamente femminista, la stessa Alda Merini. Donne che la accompagnano, prendendola sottobraccio, in un percorso comune di poesia e ricerca dove labile è il confine tra la parola e il segno. Le sue installazioni sono prigioni trasparenti che racchiudono lettere, poesie, fotografie in bianco e nero rielaborate. Gli abiti solo all’apparenza sembrano involucri inanimati ma in realtà rivestono l’essenza di tutte loro che Grazia Lavia lega con corda sottile, allo stesso tempo vincolo e filo dei suoi ricordi. L’artista mette in scena una poesia visiva esteticamente perfetta ma per nulla rassicurante, dove, dietro il candore apparente, si legge l’animo tormentato di chi, donna in tempi dove l’essere donna voleva dire venire rinchiuse in stretti vincoli sociali, non poteva fare altro che mettere su carta la volontà di affermazione e emancipazione dell’io. E ritorna, alla fine del suo percorso, la contraddizione dell’eterno femminino con quel vestito nero che fa da punto e contrappunto alla visione che nell’immaginario sociale si ha di ogni donna, divisa tra il candore e i luoghi oscuri dell’anima, santa o strega senza alcuna possibilità di una via di mezzo.